Tutti noi abbiamo ammirato l’arte classica greca e romana, abbiamo imparato a riconoscerne lo stile e le foggie e per molti secoli abbiamo creduto fosse un mondo monocromatico.
Solo con i primi scavi di Pompei, uniti alle nuove tecnologie, si è scoperto quanto invece l’arte classica fossero attenta all’uso del colore e di ogni sua sfumatura: ogni opera, sia essa un busto o una statua, era dipinta con colori vivaci. Gli antichi greci ritenevano che chiunque fosse stato così illustre da essere raffigurato in una statua, dovesse esserlo nel modo più realistico possibile, così da dare all’osservatore la sensazione di essere in presenza della persona in carne ed ossa da onorare e, al tempo stesso, identificarsi in lei. Inutile dire che solo il colore poteva raggiungere tale risultato, pertanto una statua, ancorché realizzata con i materiali più pregiati, se non colorata perdeva la motivazione per la quale era stata realizzata.
Questo amore per il colore e l’attenzione nel suo utilizzo da parte degli antichi artisti, non si limitava alle sole statue. Venivano dipinti anche gli edifici, in particolar modo i palazzi patrizi e i templi. Ne sono prova il Partenone ad Atene o l’Ara Pacis, i quali erano un tripudio di colori.
Purtroppo, però, i colori sono stati cancellati dal trascorrere del tempo e per questo, quando la moda rinascimentale iniziò a prendere spunto da quella classica, spinse gli artisti a riprodurre ogni opera così come appariva ai loro occhi, ovvero totalmente priva di colore.
Il Rinascimento iniziò così a riscrivere il concetto stesso di raffinatezza artistica. L’arte colorata del Medioevo venne considerata rozza e volgare e il candore divenne, al contrario, il metro di misura dell’arte di alta qualità. Il colore che donava alle statue il realismo venne sostituito della maestria con cui venivano realizzate le forme dei corpi, i tratti dei visi e dei panneggi.
Giovanni Baravelli Sabena