Riconoscibili da lontano, le opere più famose di Fontana che tanto hanno scandalizzato il pubblico del 1958 e dove ognuno ha asserito che chiunque poteva realizzarle, nascondono invece un concetto, definito dallo stesso autore, di “spaziale-attesa” in quanto squarcia letteralmente il velo dell’arte con l’intento di scoprire cosa c’è oltre, e l’osservatore, contemplando l’opera, “attende” di svelare a sé stesso cosa si cela dietro le fenditure, liberandosi dalla schiavitù della materia e provando un senso di pace.
L’opera racchiude una tecnica molto precisa: oltre alla scelta della tela più indicata che preparava con cementite su entrambi i lati per renderla più resistente, la colorava con l’idropittura che rendeva la superficie liscia (come i muri di casa). Per eseguire il taglio con il suo famoso taglierino Stanley, la pittura non doveva essere completamente asciutta e il taglio non doveva essere né troppo lento né troppo veloce; una volta eseguito il taglio l’artista applicava sul retro delle strisce di garza nera in modo che non si vedesse il muro. Infine, i bordi del taglio venivano aggiustati in modo che assumessero la caratteristica forma leggermente concava che tutti oggi riconosciamo.
Nato in Argentina a Rosario nel 1899 e morto in Italia a Comabbio (Varese) nel 1968 ha vissuto tra Argentina, Italia e Francia dove ha intrapreso diversi filoni creativi. Comincia come scultore e ceramista per poi arrivare alla pittura, dove si riconoscono prevalentemente le sue opere delle tele “tagliate”.
Nel 1947 fonda lo Spazialismo, movimento artistico che mira al superamento dell’arte concepita e definita “stagnante”, inserendo le dimensioni del tempo e dello spazio; la sua opera “Struttura al neon” installata per la IX Triennale di Milano del 1951 formata da un neon blue continuo che si intreccia più volte appeso al soffitto, sembra cristallizzare il movimento di una torcia.
Costanza Barbiroli